La storia

I Congresso nazionale di archeologia medievale

SOCIETA' DEGLI ARCHEOLOGI MEDIEVISTI ITALIANI
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ARCHEOLOGICHE
UNIVERSITA' DI PISA

AUDITORIUM DEL CENTRO STUDI
DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PISA (EX BENEDETTINE)
PISA, 29-31 MAGGIO 1997

 

SEGUENZA DI ETÀ ROMANA E MEDIEVALE NELLA PIEVE DI GARLATE (LECCO)

di GIAN PIETRO BROGIOLO, G. BELLOSI, L. DORATIOTTO, ELISA POSSENTI

Piccolo comune della neonata provincia di Lecco, la località di Garlate, posta sulla destra idrografica dell’Adda a circa 5 km dal capoluogo in direzione sud, si trova all’estremità meridionale del lago omonimo, originato da uno slargo dello stesso fiume.
Il territorio garlatese si estende sui conoidi, protesi verso il lago, dei torrenti Orco, Molina, Figina (dove si sviluppano i due insediamenti più significativi del centro e della frazione Figina), Rio S. Carlo, Cavallino e Tinazza, comprendendo la collina morenica retrostante sino a 500 m di altezza e la zona rivierasco-paludosa.
La chiesa parrocchiale, che sorge su di un piccolo dosso roccioso prospettante il lago, a circa m 205 s.l.m., corri­sponde all’antica plebana di S. Stefano, istituzione posta a capo di una pieve che, abbracciando le due sponde dell’Adda, comprendeva l’intero Monte Barro spingendosi probabilmente fino al complesso monastico di S. Pietro al Monte di Civate che, dagli Inventari di Goffredo da Bussero del XIII sec., è attribuibile con qualche dubbio alla giurisdizione di Garlate (MAGISTRETTI-MONNERET DE V!LLARD 1917, p. 292).
Le indagini archeologiche sono state effettuate in due distinte campagne: nel 1995 nella sacrestia sud e nel 1996 all’interno della navata principale e del transetto dell’attuale edificio seicentesco.
Lo scavo, condotto dall’Università di Padova e commissionato dalla Parrocchia di Garlate in occasione di lavori di ristrutturazione della chiesa, ha preso spunto da alcuni precedenti ritrovamenti (tre capselle liturgiche e tre lapidi, ascrivibili complessivamente al V-VI secolo) (SANNAZARO 1994, pp. 287-299) e dalle indagini ettettuate nell’ambito di un progetto inteso ad allargare le conoscenze sul territorio circostante il complesso altomedievale di Monte Barro.
La sequenza individuata si articola in tre periodi principali: romano. paleocristiano-altomedievale e romanico.


1. PERIODO ROMANO

Lo scavo ha permesso di indagare strutture pertinenti ad una villa, di pianta complessa, disposta probabilmente su più livelli ed edificata, a partire da uno strato di coltivo antico, sul versante della collina degradante verso il lago da cui dista circa un centinaio di metri. I lacerti di pavimenti e i materiali rinvenuti consentono di collocare la costruzione tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del successivo.
Sono state individuate strutture murarie, con spessore compreso tra m 0,45 e 0,50, erette in opera incerta con blocchi di calcare appena sbozzati e rivestite da intonaci di colore giallastro. Le murature sono riconducibili ad un unico grande ambiente rettangolare di m 11x6 orientato est-ovest, sui cui lati si aprivano probabilmente altri vani, deducibili dallo sviluppo delle murature ma la cui pianta non ha potuto essere verificata a causa dei limiti di scavo e di interventi posteriori.
In fase con questo ambiente, sono due lacerti di pavimento ancora in situ: posato sopra una preparazione di ciottoli fluviali e malta, è realizzato in opus signinum con crustae di pietra nera ed è decorato in opus tessellatum con bande bianche e nere disposte lungo i bordi. Altri frammenti, realizzati con la medesima tecnica ma con diversa decorazione (un motivo floreale ripetuto regolarmente, formato da quattro tessere bianche disposte a croce), sono stati rinvenuti reimpiegati in strutture di epoche successive ed appartengono, probabilmente, al pavimento di un altro vano della villa. Sempre all’interno di unità stratigrafiche posteriori alla vita dell’edificio, sono stati recuperati diversi frammenti di intonaco dipinto (giallo, nero e rosso pompeiano) ed altri materiali da rivestimento di età romana, come tessere musive bianche e nere, lastrine rettangolari in marmo bianco, nero e verde, elementi triangolari in marmo bianco di opus sectile. A causa della quasi totale distruzione dei livelli d’uso è risultato, invece, molto scarso il materiale ceramico limitato ad alcuni frammenti di sigillata nord-italica e ceramica a vernice nera, provenienti da uno strato in fase con la costruzione dell’edificio.
Il riuso di alcune murature della villa in un sacello funerario di V sec. e la buona preservazione delle strutture murarie e pavimentali fanno ad ogni modo supporre che l’edificio abbia avuto continuità d’uso fino a tale epoca e, forse, anche oltre. La posizione del complesso acquista, poi, un peculiare significato se messa in relazione con la strada romana che, attestata per ora dalla sola Tabula Peutingeriana come tratto della Bergomum-Comum, almeno a partire dal III sec. (periodo a cui si data il vicino ponte detto di Olginate) transitava appena a nord della villa.
Questa via, in età romana, attraverso i municipi pedemontani della Lombardia, Brixia, Bergomum, Comunum raggiungeva le Alpi, attraversava il passo dello Spluga e proseguiva, poi, per la Retia e la Germania. E' incerto se il nostro tratto abbia fatto parte subito di tale itinerario o se costituisse una successiva strada di arroccamento. Punti fermi del percorso sono, comunque, da considerarsi i due ponti romani riconosciuti ad Almenno S. Salvatore e ad Olginate rispettivamente datati al I e al III sec. d.C.
La strada all’uscita da Bergamo risaliva leggermente a nord sino ad Almenno ove, attraversando il Brembo, puntava su Barzana e raggiungeva gli abitati di Pontida e Caprino; da qui, entrando nella valle di S. Martino (dove ancora nel XVII sec. aveva il nome di strada Romea), raggiungeva Calolziocorte e il ponte di Olginate. Passata l’Adda e attraversata Garlate, risaliva la costa fino a Galbiate, alle falde del Monte Barro (noto sito fortificato di età gota); transitando poi per le località di Sala al Barro e Civate, raggiungeva Incino presso Erba (forse l’antico Licini Forum) e, attraverso Albese, la città di Como (DEGRASSI 1946, p.17: FORTUNATI ZUCCALA 1995, pp. 53-55).

2. DAL SACELLO CIMITERIALE ALLA CHIESA PALEOCRISTIANA-ALTOMEDIEVALE

L’ambiente di età romana viene, nel corso del V sec., riutilizzato per l’impianto di una cappella cimiteriale la cui planimetria non è ancora definita con certezza. Due sono le ipotesi possibili: un sacello rettangolare di m 11x6 che riprende in toto la primitiva aula romana, oppure un più piccolo ambiente di m 7,50x6 con antistante nartece. La presenza di quest’ultimo si basa sulla posizione di un muro N/S, di incerta cronologia, forse già presente durante le ultime fasi di vita della villa, che, in mancanza di dati stratigrafici certi, potrebbe anche essere stato eretto come muro di facciata della cappella paleocristiana.
I limiti imposti dalla messa in sicurezza dell’edificio attuale e i tagli eseguiti in epoche posteriori, tra cui quello di un grande sepolcro settecentesco a camera, hanno impedito la totale esplorazione dell’ambiente che, nell’area scavata, appare completamente costipato da tombe, come spesso è stato constatato in analoghi casi prevalentemente transalpini (Brogiolo c.s.). Undici sono quelle indagate, su un totale massimo possibile di venti sepolture.
In base ai rapporti tra le strutture dei singoli sepolcri èstato possibile identificarne la sequenza cronologica. Va comunque rilevato che quest'ultima potrebbe essere stata, in gran parte, solo costruttiva e non corrispondere ad una reale e progressiva occupazione degli spazi nel tempo. Lo studio dei resti ossei e il restauro dei materiali potranno forse chiarire meglio questo aspetto.
Due tombe, le più antiche tra quelle individuate, rispettano o hanno stretti rapporti con il muro divisorio che taglia ortogonalmente la grande aula riducendone la superficie e modificandone la pianta. Si tratta di T 17, con copertura alla cappuccina, e della contigua T 27, a cassa in lastre di arenaria, posizionata a ridosso del perimetrale sud nell’angolo con la possibile facciata.
Seguono altre cinque sepolture che vengono disposte a partire dall’angolo sud-est. Accanto ad un grande sarcofago, probabilmente di reimpiego (T 24), vengono collocate una tomba a cassa in lastre di arenana (T 25) e, quindi, in successione, altre tre casse in lastre: T 31 (ortogonale a T 24 e T 25), T 29 e T 21. Queste due ultime sepolture chiudono lo spazio rimanente tra T 31 e le due più antiche (T 17 e T 27); in particolare, a 1 29, costruita contro il perimetrale sud, si addossa, sfruttandone una parete, T 21.
In quanto completamente asportato, non è stato possibile identificare il piano pavimentale a partire dal quale sono stati praticati i tagli per le sepolture descritte. L’ipotesi più probabile è che le tombe siano state impostate demolendo progressivamente un pavimento che, in base a quanto constatato nel nartece (v. ultra), avrebbe potuto essere quello romano.
Il primo livello pavimentale individuato era costituito da un semplice battuto di limo grigio-verdastro di cui sono state trovate tracce consistenti al di sopra e a stretto contatto della lastre di copertura non riaperte di T 27, 1 29 e T 31 e, in due punti, al di sopra della rasatura del supposto muro di facciata.
Appare poco probabile, ma non è da scartare, la possibilità che il livello pavimentale di limo verde, presente anche all’interno di T 21, 1 27, T 29 e T 31 in seguito ad infiltrazioni, sia il risultato di un semplice evento alluvionale. Dal momento che mancano tracce di una pavimentazione intermedia tra le lastre di copertura delle tombe e il limo, le stesse lastre di copertura, poste a quote anche sensibilmente diverse tra loro avrebbero inoltre potuto fungere da pavimentazione del mausoleo.
Si ripropone, quindi, il dubbio iniziale relativo all’originaria planimetria dell’edificio. Il primitivo impianto avrebbe potuto avere un nartece mosaicato e un’aula la cui pavimentazione originaria è andata completamente perduta. Diversamente, se si considera il limo quale primo livello pavimentale, il muro divisorio, assimilato alla facciata, avrebbe dovuto essere già stato rasato e la cappella funeraria comprendeva tutto l’originario vano di m 11x6.
Il problema rimane aperto e, in mancanza del riscontro stratigrafico, l’unica via percorribile sembra quella del confronto con analoghe situazioni. In Italia settentrionale un caso in parte simile è rappresentato dal sacello altomedievale messo in luce all’interno della chiesa dei SS. Sisinnio e Agata ad Ossuccio (Co). Un ambiente di pianta quasi quadrata (m 5,5x5), attribuito agli inizi del VII sec., aveva una pavimentazione costituita dalle lastre di copertura di otto tombe a cassa in muratura. (CAPORUSSO-BLOKLEY 1995, pp. 243-245). Diversamente da Garlate, ove è possibile riscontrare dei veri e propri gradini (fino ad un massimo di cm 14), le lastre sembrano però, in questo caso, formare un piano quasi orizzontale (CAPORUSSO-BLOKLEY 1995, p. 266 figg. 3-4; p. 268 fig. 7).
Anche la costruzione dell’abside pone problemi di collocazione cronologica che non è stato possibile superare con lo scavo.
Una grande breccia viene praticata nel perimetrale est del sacello, così da consentire l’accesso alla struttura absidale che si va edificando in appoggio al perimetrale stesso. Costruita in opera incerta, con blocchi di calcare appena sbozzati e ciottoli fluviali legati da malta, la muratura dell’abside ha uno spessore di m 0,50 cd un’apertura stimata, verso la navata, di m 3,50 Ca.

Contemporanea è una sepoltura privilegiata (T 22), posta davanti all’altare, orientata est/ovest la cui costruzione ha asportato completamente la fondazione dell’antico perimetrale. Sigilla la tomba e costituisce la pavimentazione dell’abside un mosaico, su preparazione di cocciopesto, di cui si conserva un piccolo lacerto in opus tessellatum con tessere bianche e nere che formano un motivo decorativo a bande.
La distruzione di gran parte dell’abside primitiva operata durante la ricostruzione romanica e una successiva grande buca seicentesca hanno purtroppo tagliato in questa zona i rapporti delle strutture altomedievali non consentendo, unitamente alla violazione di T 22, una precisa collocazione stratigrafica della ristrutturazione della cappella funeraria.
Nel frattempo, altre sepolture vengono disposte entro la chiesetta. T 18, posta immediatamente a ridosso di T21 di cui sfrutta l’intera lastra nord, è una tomba a cassa, delimitata da lastre monolitiche di arenaria interamente sigillate da malta bianca e non più, come in precedenza, rosata. Nel supposto nartece, che mantiene ancora in uso la pavimentazione a mosaico romana, o comunque nell’angolo nord-ovest dell’aula, sono invece presenti T 28, una deposizione in nuda terra, e la successiva T 23, in lastre e muratura con copertura monolitica a doppio spiovente.
Le ripetute riaperture dei sepolcri per nuove deposizioni che, con la sola eccezione di T21, perdurano sicuramente anche dopo la metà del VII sec., comportano un continuo degrado della pavimentazione che viene completamente sostituita nella navata da un pavimento di malta molto tenace di colore grigio-giallastro; questo presenta ancora il reimpiego di un lacerto di mosaico romano.
Nel presbiterio, invece, separato ormai da un muretto di cui si conserva un piccolo lacerto in appoggio al perimetrale sud, la nuova pavimentazione che, sigilla definitivamente le sepolture, consiste in un cocciopesto nel quale sono insenti due altri lacerti di mosaico e due motivi decorativi realizzati con il reimpiego di opus sectile. Questi ultimi erano posti agli estremi est ed ovest di una lastra in seguito asportata, forse un’epigrafe, di cui è rimasta la chiara impronta.
Un’apertura documentata da due gradini viene praticata nel perimetrale sud e mette in comunicazione il presbiterio con un ambiente di ignota planimetria individuato nella campagna ‘95 nella sacrestia sud (già antica cappella di S. Materno). Di questo vano si conserva un lacerto in muratura orientato nord-sud con il relativo pavimento in cocciopesto, ma non è chiaro se si tratta di un nuovo annesso alla chiesetta o, più semplicemente, di un riutilizzo di un ambiente della villa.
Una sepoltura orientata est-ovest taglia questo pavimento; si tratta di una cassa rettangolare in lastre di pietra e muratura, purtroppo ripetutamente violata.
Un’ulteriore ristrutturazione, effettuata allo scopo di rialzare la zona presbiteriale, prelude al periodo di decadenza della chiesetta. Asportata la lastra rettangolare decorata da motivi a triangoli contrapposti in opus sectile, viene posto in opera fin contro il muretto divisorio un nuovo pavimento in malta di colore bianco-giallastro che presenta un vistoso rappezzo formato da undici frammenti dilapidi e da alcuni elementi di lastre nere da rivestimento.
La cattiva fattura di quest’ultima pavimentazione e il reimpiego delle epigrafi frarnmentate, che dovevano originariamente essere poste a muro, sono il chiaro sintomo della fine imminente dell’edificio.

IMMAGINI CON CROCI TOPOGRAFICHE RIFERITE ALLA MAGLIA DI SCAVI

3. PERIODO ROMANICO

Sopra le strutture rasate della precedente chiesetta, viene impiantata una nuova e molto più grande costruzione adibita al culto. La nuova chiesa, anch’essa orientata estovest, misura m 20,5x 12,8, è a tre navate, divisa da due file di pilastri che sorreggono archi e presenta ad est, verso il lago, tre absidi semicircolari (Fig. 2).
All’interno dell’altare maggiore vengono forse poste le capselle liturgiche datate al V-VI sec., che, reimpiegate con le stesse modalità nella chiesa seicentesca saranno definitivamente recuperate durante la ristrutturazione di fine Ottocento (BASERGA 1904, pp. 103-105). Ristutturazione che, portando la chiesa alle forme attuali, ha permesso di ritrovare, inserita nell’abside, una delle tre epigrafi già menzionate. Si tratta di quella, datata al 490, il cui epitafio fu composto per Pierius, forse comes domesticorum, personaggio sicuramente di una certa importanza durante le vicende della seconda metà del V sec. (SANNAZARO 1994. p. 284).

G.P.B., G.B.,
L.D.

LE SEPOLTURE DELLA FASE PALEOCRISTIANA ­ALTOMEDIEVALE

Le dodici sepolture riferibili all’edificio paleocristiano-altomedievale messo in luce all’interno della Parrocchiale di Garlate presentano, per la maggior parte, una struttura a cassa in lastre di arenaria, localmente detta “pietra serena o pietra molera”. Ad eccezione di T 24 (sarcofago), T 28 (fossa in nuda terra con cordolo di ciottoli), T 23 e US 3066 (strutture in muratura con presenza di lastre nei lati brevi), le rimanenti otto sepolture sono infatti riconducibili a questa tipologia che, con minime varianti relative principalmente alla copertura o al fondo, è attestata nel lecchese a partire dalla tarda età imperiale (NOBILE DE AGOSTINI 1994, pp. 230-232) fino all’alto medioevo (esempi in SANNAZARO 1994, pp. 300-308).
A Garlate le tombe a cassa litica presentano, con alcune eccezioni, caratteristiche ricorrenti quali l’impiego di una singola lastra a coltello per ogni lato della sepoltura, la realizzazione della copertura e del fondo con due lastre quadrangolari di dimensioni simili poste di piatto, la sistematica sigillatura dei vari elementi con malta. Piccole varianti sono costituite dalle coperture di T 17, alla cappuccina sigillata da malta, o di T 29 e T 31, con più lastre mentre, in T 27, la lunghezza insufficiente del lato E è integrata da un piccolo tratto in muratura. Maggiore diversità si riscontra nel fondo il quale può essere in nuda terra (T 17), realizzato con un’unica lastra (T 31) o, viceversa, essere formato da più lastre (T 21, T 29) o laterizi (T 27) di reimpiego posti gli uni accanto agli altri; gli eventuali spazi vuoti possono essere colmati da frammenti di laterizi e/o di lastre (T 22, T 24, T25).
La principale nota distintiva è costituita dalla messa in opera del gruppo T 31, T 29, T 21, T 18 che, costruite a partire da T 31, hanno sempre un lato in comune con le strutture adiacenti. A tale soluzione ha contribuito in parte T 31 che, forse per motivi di spazio, è disposta secondo l’asse Nord/Sud, diversamente da quasi tutte le altre sepolture dell’edificio, orientate Est/Ovest.
Particolare è anche la copertura di T 21. La sepoltura, pur sfruttando quale parete sud la lastra di T 29, appoggia la copertura su due pilastrini, uno dei quali è un frammento di colonna romana reimpiegata. La differenza di quota tra le coperture di T 21 e T29 e il fatto che la copertura di T 18 sfrutti quale sostegno quella di T 21, hanno quindi generato una serie di incastn reciproci, tali da impedire il riutilizzo di T 21 senza una contestuale riapertura di T 18.
La forma delle casse litiche è prevalentemente rettangolare; la sola T 29 ha pianta trapezoidale. Nella costruzione non fu comunque seguito un modulo costante. Benché di forma rettangolare, le sepolture hanno misure abbastanza diverse le une dalle altre e l’effetto più macroscopico è costituito dalle quote delle lastre di copertura e dalla superficie interna delle casse, che possono variare anche sensibilmente tra loro. Difficile è determinare con sicurezza quale sia stato il motivo di questa scelta, forse dettata dalla stessa natura delle lastre di arenaria, poco compatte e facilmente soggette a sfaldature; non si può comunque escludere che l’intenzionalità di riutilizzare una determinata sepoltura o l’esigenza, in primis, di una fossa bisoma abbiano determinato la larghezza di una tomba rispetto ad un’altra. L’analisi in corso dei resti osteologici e, soprattutto, il microscavo da eseguirsi in laboratorio dell’intera T 21 e di parte di T 29, T 27 e T 31, raccolte con l’ausilio di una lamina di ferro, potranno forse dare qualche suggerimento in proposito.
Nelle tombe a lastre si è riscontrata una sistematica sigillatura delle varie componenti. Come si è avuto modo di sottolineare, la malta rosata caratterizza le tombe del periodo più antico (V-VI secolo), mentre quella biancastra, presente sulla parte di copertura utilizzata per riaprire le sepolture, è da mettere in relazione ad un periodo successivo. Grazie a questo dato, per il quale si attendono comunque le conferme delle analisi, si può affermare con una discreta sicurezza che T 18, completamente sigillata da malta biancastra, appartiene ad una fase posteriore all’impianto di T 31 e T 21, di cui condivide parte della struttura. Tale dato costituisce un’ulteriore conferma alla lunga durata della cassa a lastre la cui longevità, in ambito prealpino, fu legata alla facilità di approvvigionamento della materia prima.
Pertinente al primo periodo di vita dell’edificio religioso è anche T 24, in realtà un grosso sarcofago monolite, la cui forma è ben attestata in tutto il territorio lariano. Si tratta di un notevole blocco di granito, di forma parallelepipeda, la cui cavità interna presenta i lati brevi fortemente arrotondati, le pareti a piombo e il fondo orizzontale. La copertura era costituita da due lastre quadrangolari di granito, appoggiate di piatto. Analogamente a quanto si è constatato per le sepolture a lastre, la copertura era originariamente sigillata da malta rosata poi sostituita, nella porzione aperta e richiusa più volte per l’introduzione di nuovi defunti, da malta biancastra.
Il sarcofago, probabilmente ricavato da un masso erratico di origine glaciale, trova numerosi confronti nel territorio circostante, soprattutto nella versione dei cosiddetti massiavelli (FRlGERIO 1981) ed ha una forma ben nota nella letteratura dalla quale viene prevalentemente considerato di età romana-tardoromana o, al più tardi, altomedievale (BOLLA 1990, pp. 468-469, n. 8; CAIMI-UBOLDI 1993, p. 133, n. 125; CASINI 1994, pp. 335-336, n. 33). Dal momento che permane una certa insicurezza cronologica, non si hanno elementi sufficienti per stabilire se il manufatto sia da considerare un riutilizzo (come è forse più probabile) oppure la sede di una sepoltura particolarmente prestigiosa appositamente commissionata per il mausoleo di V sec. Di un certo interesse è, ad ogni modo, un secondo sarcofago, del tutto simile ma attualmente privo di copertura, conservato a Garlate nel cortile di casa Gnecchi, adiacente la chiesa di S. Stefano. Si tratta forse del «sepulcrum ... magnum totum lapideum factum in forma magne capse cum suo coperto» segnalato nella visita pastorale del 12 ottobre 1570 (Archivio Parrocchiale di Olginate, VM/1, Registro Visite Vecchie) che, posto all’interno della vicina chiesa ora distrutta di S. Agnese, potrebbe aver avuto un’origine comune a T 24.
All’estremità opposta della chiesa fu costruita T 23, la quale, caratterizzata dall’esclusiva presenza di malta biancastra, è probabilmente più tarda della maggior parte delle tombe a lastre e del sarcofago. La struttura era posta, secondo una delle ipotesi ricostruttive, nel nartece della chiesetta e, in base alle malte utilizzate potrebbe essere stata contemporanea, o quasi, a T 18.
La fattura di T 23 presenta una certa accuratezza: i due lati lunghi erano realizzati con sei corsi abbastanza regolari di mattoni, integrati da rappezzi di laterizi disposti a spina-pesce nella parte centrale ed occidentale; verso il fondo, i mattoni erano sostituiti da un corso di pietre di medie dimensioni, il tutto era legato da malta molto tenace che, fuoriuscendo dai letti di posa dei muretti, era stata lisciata sopra i laterizi stessi che così risultavano abbondantemente coperti da una sorta di intonacatura. Le pareti brevi erano realizzate ognuna da una lastra di pietra, integrata sul lato est da mattoni legati da malta. Sul fondo, formato da due lastre e frammenti di mattoni, era presente una sfaldatura di calcare di forma subrettangolare, assimilabile ad un cuscino per appoggiare il capo del (primitivo?) defunto. La copertura era costituita da un’unica lastra di granito a sezione triangolare, la cui superficie superiore presenta due leggeri spioventi.
L’esecuzione di questa tomba, caratterizzata da una pianta rettangolare, non è facilmente databile in quanto l’uso di muretti in laterizi contraddistingue spesso le sepolture alto-medievali lombarde. Particolarmente suggestivo è comunque il confronto con le tombe T, 2, 5 di Trezzo sull’Adda, distribuite nell’ arco del VII sec., la cui copertura monolitica a doppio spiovente è molto simile a quella di T 23 (R0FFIA-SESINO 1986, pp. 11-12, 26-27. 83-86). Altre lastre monolitiche a doppio spiovente sono inoltre note da Arsago Seprio (Va), da sepolture datate tra la fine del VI e il secondo trentennio del VII sec. (De MARCHI 1995, pp. 56-58).
In parte simile, per la compresenza di elementi litici e muratura, è US 3066, rinvenuta nella sacrestia sud e, quindi, all’esterno della cappella funeraria. I lati brevi sono in lastre (l’una di serizzo, l’altra di arenaria), i lati lunghi costituiti da pietre di varie dimensioni legate da malta e integrate, sul lato N, da una lastra di forma irregolare. La posizione stratigrafica di questa sepoltura non è affatto chiara. Nei pressi, ma all’interno della trincea di fondazione del perimetrale sud romanico, è stata inoltre rinvenuta una fusarola in osso decorata ad occhi di dado, forse proveniente dalla tomba in questione.
Completamente diversa è T 28, orientata Nord/Sud, solo parzialmente conservata, la quale presenta una semplice fossa in nuda terra con cordolo di ciottoli sul fondo. La sepoltura, fortemente compromessa dalle fondazioni dell’edificio romanico, taglia il mosaico romano ed è a sua volta tagliata da T 23. Problematica appare la datazione di questa sepoltura, tipologicamente riconducibile ad un generico orizzonte tardoantico-altomedievale ma, d’altro canto, completamente diversa dalle altre tombe presenti nell’edificio. L’impiego di ciottoli, seppure legati da malta, compare anche a Garlate loc. Figina in sepolture datate al IV-V sec., i cui corredi sono prevalentemente costituiti da piccoli contenitori di ceramica e/o vetro (CASINI 1994, p. 353, n. 164). Cronologicamente non casuale potrebbe quindi essere la presenza, in T 28. di un fondo di vasetto in pietra ollare la cui superficie esterna, solcata da ampie scanalature, sembra riferibile al tipo IV di Monte Barro, considerato “di transizione” tra la produzione tardoantica e quella altomedievale (BOLLA 1991. pp. 97-98).
Secondo una prassi comune, quasi tutte le tombe furono riutilizzate per più deposizioni. E stato constatato che l’inserimento di un nuovo defunto veniva sempre effettuato, nelle tombe con copertura a due lastre, spostando la lastra ad W, o nel caso di T 31, orientata Nord/Sud, quella a N. Tale deduzione è resa possibile dal fatto che la risigillatura delle coperture presenta sempre malta diversa da quella originaria. Fanno eccezione solo T 18 il cui legante originario è una malta biancastra, e T 23 che pur essendo chiaramente stata riutilizzata, rivela una sola sigillatura. Dal momento che T23 era chiusa da un’unica lastra monolitica molto pesante, è possibile che la tomba sia stata aperta dall’alto una sola volta, riposizionando la lastra senza più sigillarla. La sola T 21, che sembra aver contenuto i resti affiancati di un adulto e di un infante, non è stata riaperta. forse per i problemi connessi all’incastro delle lastre di copertura sopra accennati.
In alcuni casi si è potuto verificare che le ossa delle inumazioni più antiche erano ammucchiate ai piedi dell’ultimo defunto o disposte lungo i lati della cassa: Questo procedimento è apparso più chiaramente nelle tombe la cui primitiva deposizione era stata sigillata da uno strato limoso verdastro, forse ascrivibile ad un episodio di alluvione (v. supra). Nella T 29, ad esempio, i lacerti di limo che inglobavano le ossa della parte superiore del corpo erano ammucchiati verso il fondo dove, ancora in situ e sempre immersi nel limo. restavano i piedi e parte deglitarti inferiori del morto più antico. Dal momento che non si dispone ancora dei dati antropologici, è comunque imprudente pronunciarsi sull’effettivo numero di rideposizioni effettuate
all’interno di ogni singola sepoltura. Gli allagamenti, di cui restano tracce in molte tombe, e l’accertata attività di piccoli roditori e bisce hanno inoltre spesso modificato l’originaria posizione dei resti ai quali non è più possibile riferife in alcun modo i pochi elementi di corredo recuperati.
Benché il restauro dei materiali e il microscavo in laboratorio dell’intera T 21 e di parte di T 29, T 27 e T 31 sia ancora in corso e quindi suscettibile di modificare il quadro generale, va osservato che alcuni oggetti sembrano confermare l’avvicendamento cronologico del complesso suggerito dai dati stratigrafici e dalle fonti epigratiche. Alcuni materiali di VII sec. (elementi di cintura in bronzo a 5 pezzi), provenienti da T 29, non appartengono, infatti, con certezza all’inumazione sigillata dal limo. Possiamo quindi ragionevolmente supporre che l’episodio alluvionale e le deposizioni più antiche si collochino prima dell’inizio del VII sec., epoca a partire dalla quale sono generalmente datate le cinture a cinque pezzi (VON HESSEN 1983, pp. 24-27).
Fra gli altri materiali recuperati, si segnalano un elemento di cintura ageminata dal riempimento sconvolto di T 24, una fibbia di cintura in ferro da T 31 e frammenti di pettine da T 29. In T 27 è stata raccolta, prelevando una porzione del fondo tomba in tegoloni, parte di una deposizione (posteriore alla sigillatura in limo) il cui corredo era composto da una fibbia in ferro, un pettine in osso a doppia fila di denti, due frammenti in bronzo e un colteliino in ferro. Nella radiografia di quest’ultimo sono visibili i chiodini disposti lungo il bordo del fodero e un appiccagnolo in bronzo, forse pertinente alla cintura. Nel riempimento superiore sconvolto della medesima T 27 sono stati rinvenuti altri frammenti di pettine d’osso, vaghi di collana, un anello in ferro e uno in bronzo; particolarmente prezioso è un anello d’oro decagonale con castone decorato da filo godronato.
Determinanti saranno, infine, i risultati forniti dal microscavo in laboratorio del limo raccolto, sulla cui superficie, per lo meno in T 21 e T 29, sono stati individuati già nel corso dello scavo resti di filo d’oro. In particolare, T 21, unica tomba non riaperta con due deposizioni affiancate completamente sigillate, potrebbe contribuire a chiarire le modalità di deposizione praticate nel V-Vl sec. in un contesto sociale privilegiato.

E.P.

 

IMMAGINI CON CROCI TOPOGRAFICHE RIFERITE ALLA MAGLIA DI SCAVI

CONCLUSIONI

Le campagne di scavo ‘95 e ‘96, condotte all’interno della Parrocchiale di 5. Stefano, consentono al momento una valutazione parziale delle strutture messe in luce. Un’ipotesi interpretativa di più ampio respiro potrà essere elaborata solo con l’ampliamento dello scavo nelle aree esterne alla chiesa, in parte occupate da edifici moderni. Pur con questa riserva, il sito si è rivelato ad ogni modo molto interessante confermando alcuni dati già noti per il territorio lariano e fornendo, d’altro canto, nuovi spunti di ricerca. Tra questi, alcuni sono di particolare rilievo.
In primo luogo, la posizione della villa acquista un peculiare significato se messa in relazione con la strada romana, che almeno dal III sec. (periodo al quale si data il ponte di Olginate) transitava a nord del complesso. L’insediamento dunque, oltre che di un retroterra agricolo collinare, si avvaleva probabilmente delle opportunità fornite dalla vicinanza di un nodo portuale e della strada ad esso collegata.
In secondo luogo, la presenza di un sacello funerario di V-VI sec, che sfrutta le murature di una villa romana, corrobora l’ipotesi di una tenuta del modello insediativo tardoantico, secondo modalità documentate soprattutto in Canton Ticino (BROGIOLO c.s.). Obiettivo delle prossime indagini sarà, quindi, il chiarire l’eventuale rapporto tra le strutture del mausoleo e le restanti porzioni della villa la cui estensione non è ancora nota.
Un terzo aspetto è riconducibile al fenomeno di cristianizzazione, noto archeologicamente soprattutto in Gallia e nelle Rezie, caratterizzato dal sorgere di cappelle funerarie private che, successivamente, vennero trasformate in chiese entrando a far parte dell’organizzazione ecclesiastica, dipendente gerarchicamente dal vescovo.
I segni materiali di questo iter sono ben documentati nel nostro complesso. In un primo periodo, collocabile nel V-V1 sec. e segnato dalle sigillature di limo verde, gli inumati hanno ricche vesti con broccato d’oro ed epigrafi funerarie. In base alle porzioni non toccate dalla tomba a camera settecentesca, l’interno del sacello doveva inoltre essere quasi completamente costipato di tombe.
Di rilievo storico fuori dell’ordinario è, invece, la successiva fase di utilizzo dell’edificio. Presumibilmente tra la fine del VI e il VII sec. vengono deposti individui con corredi di tipo longobardo, il cui rango sociale non è definibile a causa delle successive spoliazioni. Più significativa a tale riguardo è forse la struttura di T 23. la cui copertura a sezione trapezoidale trova confronti nelle grandi e ricche tombe di Trezzo e Arsago Seprio.
Lo scavo degli altri ambienti della villa romana acquista così un ulteriore significato in relazione a queste ultime presenze: viene infatti da chiedersi se la villa fosse ancora in uso, se in essa vi fosse stato un avvicendamento della proprietà o se si siano verificati altri ignoti avvenimenti.
Merita infine un cenno la sistemazione altomedievale dell’area adiacente all’abside, con una pavimentazione che sigilla le sepolture e conclude l’utilizzo funerario di almeno questa parte della chiesa. Se questa sistemazione potesse essere correlata con le sepolture dell’abside e con la deposizione della tomba privilegiata presso l’altare, avremmo un’indicazione materiale della trasformazione del sacello funerario in luogo di culto, grazie all’intervento di un personaggio di rilievo, in un’età posteriore alle deposizioni della prima età logobarda e quindi collocabile alla fine del VII se non, addirittura, all’VIII secolo.

G.P.B.