La storia

Un'epigrafe di Garlate

Dedico questo scritto alla memoria del prof. Michelangelo Cagiano de Azevedo, dal quale, inesperto studente, sentii per la prima volta parlare del comes Pierius.
Ringrazio vivamente il parroco don Mario Colombini per la disponibilità e l’interesse mostrato per il mio lavoro; la dott.ssa Stefania Casini e l’arch. Paolo Corti, cui si devono le foto pubblicate, per la fattiva collaborazione.

MARCO SANNAZARO


IL COMES DOMESTICORUM PIERIUS E LA BATTAGLIA DELL’ADDA DEL 490

Nel 1896 la chiesa parrocchiale di S. Stefano a Garlate fu interessata da lavori di ampliamento e ristrutturazione che cambiarono l’orientamento dell’edificio con la costruzione di una nuova facciata sul sito della vecchia abside; fu nel demolire il vecchio muro absidale che si rinvennero due frammenti marmorei iscritti pertinenti originariamente un’unica lastra. Di questo ritrovamento parlò per primo Giovanni Baserga, che fornì prima edizione dei due epitaffi iscritti sulla lapide; successivamente le iscrizioni vennero incluse da Ugo Monneret de Villard nel suo corpus delle epigrafi cristiane comasche e la prima venne pubblicata anche da Angelo Silvagni nei MEC. Finora dell’epigrafe sono state date letture parzialmente inesatte e soprattutto non si riconosciuta la possibilità di identificare storicamente il personaggio citato nel primo dei due epitaffi, ipotesi che viene discussa in questo libro.

L'EPIGRAFE

I due frammenti, in marmo di Musso, sono conservati presso la parrocchiale di S.Stefano in un locale attiguo alla sacrestia, misurano rispettivamente cm 28 x 70 x 8, e 61 x 27 x 8, combaciano e sono sovrapponibili. La lastra ricomposta presenta lati superiore e laterale destro (per chi guarda) abbastanza integri, l’inferiore lacunoso e risulta priva di una striscia di materiale sul lato sinistro. Da questa parte si presenta una frattura tendenzialmente parallela al lato destro, con asperità, sbrecciature e due incavi ad andamento curvilineo (cm 8 c.a di diametro) in prossimità dei lati brevi. Sembra un taglio praticato intenzionalmente, anche se con poca cura, per un imprecisabile riutilizzo della lastra prima del successivo impiego come materiale da costruzione. Al reimpiego della lapide si devono anche i residui di malta rosata conservatisi soprattutto sul secondo lacerto di cui otturano in parte i solchi dell’iscrizione.
Considerando che la lacuna ha determinato la perdita, nei casi in cui è possibile un’integrazione sicura, di 4/5 lettere per riga, si può calcolare che la striscia di marmo perduta fosse di c.a cm 13 le misure originarie sarebbero quindi di cm 41 x 131.
Per comodità di esposizione parto dal secondo epitaffio: l’incisione è sottile e poco profonda; l’iscrizione su 7 linee, presenta un ductus molto irregolare che risulta l’elemento più evidente dell’epigrafe; l’interlinea varia da cm i a 4, le lettere, in altezza di cm 2.5-6.2 sono, considerando anche le restituzioni, in numero di 8-12 per riga. Rispetto all’orientamento della lastra le linee di testo risultano oblique, soprattutto le prime 2, mentre nelle altre c’è un progressivo tentativo di correzione che determina un andamento curvilineo.

[Hic] requi
[esc]it in pac
[e ---]tus pre
[sbyte]r qui vix(it)
[in sae]culo ann(os)
[pl(us) m(inus) ---] x
+

Le lettere più caratteristiche sono la A piuttosto aperta con traversa spezzata; la L con braccio leggermente obliquo; la N con aste prolungate; la O piuttosto piccola; la O dall’occhiello aperto e dalla coda pronunciata che nei due esempi attestati presenta inclinazione diversa; la I dall’asta piuttosto lunga; la V molto aperta. Certamente il lapicida che ha inciso l’epitaffio non è lo stesso dell’altro; l’irregolarità del suo lavoro è tale che si ha quasi l’impressione che non abbia potuto operare liberamente e che sia intervenuto su una lapide già collocata e che non poteva essere rimossa.
L’unico elemento sicuro per una datazione post quem è fornito dall’epigrafe precedente che è del 490; il formlario e i caratteri paleografici fanno credere che non vada collocata oltre il VI secolo.
Di maggiore interesse è la prima iscrizione, su 9 righe. Sono parzialmente visibili le linee guida ad una distanza di cm 6-6.2; l'interlinea è di cm 1 c.a; la scrittura, abbastanza fitta, presenta, considerando le restituzioni certe, 12-14 lettere per linea con l'eccezione delle righe 7 e 8 che mostrano un addensamento maggiore (17-19 lettere).

[B(onae)] M(emoriae)
[Hic r]equiescit
[in pa]ce Pierius
[v(ir) il]lusiris
[qui vi]xit in secu
[lo an]nos pl(us) m(inus) I
[dep(ositus) s(ub)] d(ie) iiii idus Acus
[tas Lon]gino bes et Faus
[to v(iris)] c(larissimis) consul(ibus)


LE LAPIDE DI PIERIUS E [---]TUS RICOMPOSTA ;
RESTITUZIONE DELL'EPITAFIO DI PIERIUS

Le lettere più caratteristiche sono la A piuttosto stretta e con traversa spezzata; la B con occhiello superiore piuttosto piccolo; la D costruita partendo da una cui è aggiunto il tratto semicircolare: la E stretta; la F con tre bracci, di cui il superiore obliquo e lungo; la G caudata; la L con braccio obliquo, molto accentuato nell’indicazione numerica e prolungato oltre l’asta in un altro caso; la M con aste esterne leggermente divaricate e vertice inferiore che tocca il rigo, nella M della prima linea le aste non si congiungono ai vertici; N con aste prolungate, tranne che nella riga 9; le O sono piuttosto diverse l’una dall’altra, ma tendenzialmente ovali; la Q è caudata; nella V l’asta destra è grosso modo verticale, l'altro, obliquo e curvilineo, che raggiunge l’asta destra; la V della prima riga presenta caratteristiche diverse e pare quasi costruita corregendo una C incisa per errore. Particolare importanza per il nostro discorso assume la T che presenta aspetti diversi: nella linea 2 mostra un braccio sviluppato e una seconda traversa alla base dell’asta, nella riga 5 il braccio è poco sviluppato, nella riga 8 è praticamente assente, segnalato solo da un breve sgraffio. Tutte le parole abbreviate sono segnalate da trattini obliqui talora ondulati.
I caratteri paleografici utilizzati riflettono, come nell’altra epigrafe, forme comunemente utilizzate nelle officine lapidarie dell’epoca e di cui il ricco patrimonio epigrafico dell’area comense offre numerose testimonianze; varianti più particolari come la T con due traverse o la strana V dell’ultima riga vanno probabilmente imputate all’imperizia ed all’estro del lapicida più che a qualche preciso riferimento formale. Il testo presenta anche alcuni errori di scrittura e volgarismi che si riscontrano anche altrove:
il comunissimo secu[lo] senza dittongo, Acus[tas] per Augus[tas]», bes per bis
Nell’editare l’epigrafe il Baserga forniva un’indicazione cronologica errata, ponendola nel 491, invece che nel 490; probabilmente l’equivoco nasceva da un’altra epigrafe di Garlate, già pubblicata dall’Allegranza, che ricorda gli stessi consoli ma che è datata post consulatum.
Anche il Monneret de Villard pubblica i due tituli con qualche errore: innanzitutto, e abbastanza inspiegabilmente, riprende la stessa errata indicazione cronologica fornita dal Baserga; non riconosce che i due epitaffi appartengono ad un’unica lastra e li presenta separatamente; nel proporre l’integrazione al testo sembra supporre un lacuna anche sul lato destro e infine legge la data di morte come <d(ie) III» invece che <(d(je) IIII» ; la datazione ipatica è invece riportata correttamente al 490 dal Silvagni.
Nella restituzione delle parti mancanti, che, se si esclude la riga 4, non pongono particolari problemi, divergiamo in qualche dettaglio dagli editori precedenti : per la riga 2 [Hic relquiescit, già proposto dal Baserga, va preferito al [Hic] quiescit del Monneret de Vìllard; considerando le ricorrenze in altre epigrafi dell’area, nella riga 8 abbiamo optato per Acus[tas] invece che Acus[ti]; nelle righe 8-9 a Faus[tino], scelto da Baserga e Monneret de Villard seguendo la dizione riportata dall’Allegranza per un’altra epigrafe di Garlate, abbiamo preferito il più normale Faus[to].
La linea 4 presenta un’espressione che così come si legge risulta di difficile comprensione: il Baserga la rese con il poco probabile v(ir) si(ngula) ris; il Monneret de Villard sembra non pronunciarsi, tuttavia nell’errata corrige alla sua silloge, modificava ....VSIRIS in .....VSTRIS. In questo modo non correggeva tanto un refuso tipografico, come prospetta nelle parole di premessa, ma piuttosto offriva un’importante chiave per l’integrazione della lacuna.
A questa proposta, accettabile considerando l’incertezza con cui il lapicida tratta le T, va infatti aggiunto che l’esame autoptico consente il riconoscimento di un tratto obliquo prima della frattura a sinistra della V, che potrebbe essere il braccio di una L e che rende possibile la restituzione [viril]lustris o [v (ir) il]lustris.
Personaggi con questo titolo onorifico, che in quest’epoca designa ancora una cerchia limitata di rango elevatissimo, sono piuttosto rari in Italia settentrionale, sono noti un anonimo [vi]r inl(ustris), ex comite sacraram largitionum sepolto in S. Nazaro di Milano nel 418 e la moglie Saura, inl(ustris) f(emina) deposta nel 439; di Vercelli era un titulus funerario del 470 che ricordava Maianus e il padre Luppianus, entrambi viri ìnlustres; un altro epitaffio veronese, del 531, ricorda Placidia inlustris puella e uno di Trieste del 571 un Maurentius v(ir) i(nlustris); sono infine ricordati come committenti una Fausta inlustris femina, nel pavimento musivo della basilica di Parenzo e un Apronianus vir inl(ustris) in quello della basilica della Madonna del mare a Trieste infine in S. Giustina di Padova, per i primi decenni del VI secolo, Opilio v(ir) c(larissimus) et in(lustris) p(raefectus) p(raetorio) adqu(e) patncius.
L’interesse del nostro epitaffio aumenta però considerevolmente se si confronta il suo contenuto con i dati offerti da una fonte della metà del VI secolo; descrivendo le vicende della guerra tra Teoderico e Odoaere, l’Anonimo Valesiano scrive:
«Fausto et Longino. His consulibus Odoacar rex exiit de Cremona et ambulavit Mediolanum. Tunc venerunt Wisigothae in auditorium Theoderici et facta est pugna super fluvium Adduam, et ceciderunt populi ab utraque parte, et occisus est Pierius comes domesticorum III idus Augustas et fugit Odoacar Ravennam, et mox subsecutus est eum patricius Theodericus»
Le probabilità di riconoscere nell’iscrizione di Garlate il titulus funerario del generale di Odoacre sono numerose : coincidono il nome e il titolo onorifico, dato che la carica di comes domesticorum dava accesso al rango di illustris, l'ambito geografico dell’avvenimento che è definito dall’Adda, fiume sulla cui sponda sorge Garlate; l’anno e il mese della morte. Diversa è invece l'indicazione del giorno del decesso, dato che al iii idus Augustas dell’Anonimo Valesiano, l’epigrafe contrappone il giorno precedente: iiii idus A(u)cus(tas); una contraddizione sulla quale è necessario soffermarsi, ma che comunque non riteniamo ponga grossi ostacoli.
Il cosiddetto Anonimo Valesiano è in realta un testo conservatosi grazie a due codici, rispettivamente del IX e del XII secolo che riunisce due opere distinte e di diverso contenuto. Nella sua seconda parte L’Anonimo conserva uno scritto redatto in Italia intorno alla metà del VI secolo che racconta gli avvenimenti compresi nel periodo 474-526. Come le altre fonti principali del periodo attinge ampiamente, soprattutto per quanto riguarda le indicazioni cronologiche, ai Fasti Ravennati, o Consularia Italica: una fonte ufficiale perduta nella sua redazione originale che registrava in forma sintetica i principali eventi dello stato.
Informazioni sulla battaglia dell’Adda e la morte di Pierius sono presenti anche nel Chronicon di Cassiodoro e nell’Auctarium Prosperi Hauniensis, tuttavia l’indicazione cronologica precisa è del solo Anonimo e non è quindi possibile un raffronto con altre testimonianze cronachistiche.
Secondo un’opinione del Cessi la data dell’11 agosto non andrebbe riferita alla battaglia dell’Adda, ma al ritorno di Odoacre in Ravenna dopo la sconfitta. A suo giudizio le notizie registrate nei Fasti per questi anni riguardavano esclusivamente eventi concernenti Ravenna come sede di governo e in primo luogo la presenza del sovrano nella capitale; la formula dei Fasti doveva quindi presentarsi più o meno in questo modo:
eo anno, ingressus est Odoacar rex Ravennam III idus augustas;
l’anonimo autore inserì il riferimento cronologico nel tessuto di una narrazione più estesa che presentava il ritorno a Ravenna come originato dallo scontro sull’Adda e cadde in un facile errore.
Per quanto possa farci comodo anticipare di qualche giorno la data della battaglia, non ci sentiamo di condividere quest’opinione che risulta piuttosto restrittiva circa il ventaglio di notizie che potevano essere accolte nel testo originario dei Fasti. La fonte poteva benissimo registrare battaglie decisive e la morte di personalità pubbliche di primo piano; lo stesso Cessi, che esclude la possibilità che i Fasti ricordassero le battaglie di Verona, dell’Adda e della Pineta, riferendo coerentemente le date fornite dalle fonti per questi eventi agli ingressi e alle uscite di Odoacre da Ravenna, accetta invece, non trovando altra spiegazione, che menzionassero lo scontro tra Tufa e Federico presso Trento.
Nel descrivere la battaglia dell’Adda, Cassiodoro e l'aautore dell’Auctarium Hauniense utilizzano un linguaggio letterario e rivelano una personale rielaborazione della notizia rinvenuta nei Fasti; l’Anonimo presenta invece un ordine espositivo, una serie di espressioni tipiche ed una terminologia tecnica che contemplano anche l’indicazione esatta della carica ricoperta dal personaggio e l’indicazione cronologica e che aderiscono perfettamente allo scarno formulano ufficiale che caratterizzava i Fasti.
L’attendibilità della notizia e la fedeltà dell’Anonimo nell’utilizzazione della sua fonte non escludono che un errore nell’indicazione del giorno della battaglia sia imputabile alla tradizione manoscritta se, con un poco di pedanteria, confrontiamo altri dati cronologici attinti dai Fasti e utilizzati dalle varie fonti coeve non è raro riscontrare divergenze anche sensibili originate da errori degli amanuensi o dal cattivo inserimento dei dati cronologici nel contesto narrativo.
Allo stesso modo si può pensare ad uno sbaglio del lapicida. L’iscrizione non manca dì altri errori che rivelano l’imperizia dell’artigiano e, se si considerano più in generale le caratteristiche delle epigrafi del tempo, risulta tutt’altro che infrequente riscontrare, quando è possibile un controllo delle indicazioni numeriche, per esempio nella corrispondenza tra anno consolare e indizione, imprecisioni ed errori che, è un’osservazione del Grossi Gondi, dipendono soprattutto, come nel nostro caso, dall’aggiunta o dall’omissione di una I. Forse l’errore nacque per una sorta di ipercorrettismo: il lapicida, presumibilmente analfabeta, preoccupato di aggiungere dopo le tre aste del numerale, quella iniziale della parola idus, finì col calcolarne una di troppo.
La nostra epigrafe si segnala come particolare anche per un altro aspetto: G. B. De Rossi aveva notato sulla base delle epigrafi a lui note, che il collega al consolato di Fausto giuniore, Longino, che venne nominato in Oriente, non è mai ricordato in lapidi del 490, ma solo in quelle del 491, perché probabilmente la sua elezione era fino a quel momento ignota in Occidente. L’argomento è ripreso dal Cessi che constata la stessa cosa per quasi tutte le tavole consolari occidentali e riporta il fenomeno ai dissensi tra Odoacre e l’imperatore d’Oriente nel decennio 480-490 non si riconoscevano in Oriente i consoli nominati da Odoacre in Occidente, mentre in Italia normalmente non si promulgano i nomi di quelli orientali. Con il 491, invece, quando Odoacre è assediato in Ravenna e non è più possibile il regolare esercizio delle funzioni di nomina, la sovranità orientale riacquista piena efficienza.
Dato che la nostra epigrafe menziona entrambi i consoli, può essere utile verificare se quello di Garlate è l’unico titulus con questa particolarità o se ve ne sono altri.
Tra le epigrafi sicuramente assegnabili al 490, escludendo quindi quelle che la genericità della menzione impedisce di riferire al Fausto console nel 490 piuttosto che a quello del 483, il De Rossi ricordava per Roma il titulus di Rome, deposta il 9 gennaio, quello di Thomas ed Agnes, del 1 settembre, e un frammento privo dell’indicazione del mese; a queste testimonianze va aggiunta un’altra lastra frammentaria romana, quella di un Septimin(us), priva anch’essa dell’indicazione del mese e la lettera che papa Felice indirizza il 1 maggio all’archimandrita costantinopolitano Thalasius.
Allargando l’indagine al resto d’Italia vanno ricordati il titulus genovese di Iohannes del 28 settembre; uno frammentario di Vercelli di fine settembre-ottobre; quello del vescovo di Zuglio Ienuarius di fine ottobre-novembre; quello da Terni del v(ir) h(onestus) Frilitus dell’11 novembre; quello di Cimitile del vescovo Theodosius del 7 dicembre; uno senza indicazione del mese di una Zenobia da Roccarainola (NA).
Oltre a quella di Pierius, l’unica iscrizione che abbiamo individuata con la menzione dei due consoli è stata ritrovata nella basilica di S. Abbondio in Como e ricorda la deposizione di un Iohannis avvenuta il 4 agosto. E'
certo un fatto non casuale che l’elezione di Longino, ignota o deliberatamente ignorata, a quel che sembra, in diverse parti d’Italia: ancora agli iniizi di settembre a Roma, tra settembre e novembre a Genova, Vercelli, Zuglio, Temi, verso la fine dell’anno a Cimitile, era invece conosciuta ed espressa in epigrafi comasche dei primi giorni d’agosto, una delle quali riferibile ad uno stretto collaboratore del capo sciro. Una riflessione sui significati che questo dato può assumere esula dagli scopi della presente indagine e necessiterebbe di una valutazione più estesa delle indicazioni cronologiche contenute nelle epigrafi o in altre fonti dell’età di Odoacre e delle eventuali motivazioni politico-diplomatiche dell’assenza/presenza del nome del console orientale; in questa sede ci preme soltanto collegare la menzione di Longino nei due epitaffi alla presenza dell’esercito di Odoacre nel circondano di Como.


PIERIUS E LA SUA SEPOLTURA

Le informazioni di cui disponiamo su Pierius non sono molte e riguardano solo gli ultimi tre anni della sua vita. Nel 488 è già comes ed è ricordato da Eugippio mentre sovnintende all’evacuazione della popolazione romanza del Norico; circostanza nella quale vengono traslati in Italia anche i resti di S. Severino, trasportati su un carro fino a Feltre.
Successivamente, il 18 marzo del 489, Pierius risulta beneficiario di una cospicua donazione di terre da parte di Odoacre, forse la ricompensa per il buon esito della missione nel Norico, in cui viene designato amichevolmente «vir inlustris et magnificus frater». I beni, che fornivano una rendita annuale complessiva di 690 solidi, comprendevano la Massa Pyramitana (per 450 solidi) e tre piccoli fondi limitrofi (per 40 solidi) nel territorio di Siracusa e l’isola di Meleda (per 200 solidi) in Dalmazia. Quest’isola conserva ampie testimonianze architettoniche di un palazzo tardoantico che si è voluto attribuire all’iniziativa di Pierius: comprende un corpo principale affacciato sul mare e con una grande sala basilicale, un’ampia recinzione e, poco discosto, un edificio minore che forse serviva da cappella.
Sulla nazionalità e l’origine familiare di Pierius si possono fare solo delle supposizioni. Il nome è di origine greca e di derivazione geografica, neli’epigrafia dell’Italia settentrionale non risulta altrimenti attestato, qualche testimonianza epigrafica si ha invece per Roma. Tra i personaggi di qualche importanza con questo nome, si ricordano per la fine del III secolo, il parente di una vestale; un funzionario amico di Libanio e residente in oriente che viene accusato di peculato intorno al 360; tra fine IV e inizio V secolo, un clarissimus, corrispondente di Simmaco, che viveva oltre mare, forse in Africa; nella prima metà del V secolo due distinti corrispondenti del monaco Nilo che vivevano in oriente, rispettivamente un clarissimus ed un comes; a Roma un praefectus urbi, ricordato in una novella di Valentiniano III del giugno 440 e infine un primicerius singulariorum praefecti praetorio ricordato da Cassiodoro.
Nell’età di Odoacre le cariche «illustres» risultano ripartite tra i membri delle famiglie aristocratiche romane, la nobiltà palatina ravennate e l’elemento militare germanico; sono sicuramente aristocratici romani 3 dei 4 comites domesticorum dell’epoca che documentano come la carica, per quanto conservasse una reale importanza militare, non fosse normalmente affidata a germani, ma a membri di famiglie di rango senatorio: Glabrio Anastasio e Venanzio Severo Fausto, ricoprono la carica prima del 483, Turcio Rufio Aproniano Asterio, prima del 493; per tutti e tre risultano riservati dei seggi nel Colosseo e per gli ultimi due il legame con Roma è ulteriormente precisato dalla nomina a praefectus urbi; per analogia si può pensare che anche il nostro Pierius appartenesse ad una famiglia senatoriale romana, forse alla stessa del praefectus urbi del 440.
Circa il ritrovamento della lapide nell’ambito del complesso chiesastico di S. Stefano di Garlate va detto che, per quanto non disponiamo di testimonianze architettoniche che documentino con sicurezza l’esistenza di una fase edilizia paleocristiana, non mancano indizi che rendono la cosa altamente probabile.
La più antica descrizione dell’edificio di cui disponiamo risale alla visita pastorale di S. Carlo del 1570 e presenta un edificio a tre navate molto rovinato che rispecchia forse una fase costruttiva romanica, ma la chiesa, dal titolo che può riflettere una fondazione antica e che è documentata per la prima volta nel 985, quando risulta sede pievana, ha restituito diversi materiali di V-VI secolo. Due altri frammenti epigrafici furono visti dall’Allegranza nel pavimento della chiesa, del primo risultava leggibile solo la data di deposizione del defunto, assegnabile al 491; il secondo presentava quattro distinti epitaffi funerari, dei quali i primi tre del 539.
Durante i lavori del 1896, inoltre, si rinvenne sotto l’altar maggiore una fossa per reliquie, chiusa da una lastra rettangolare di marmo bianco (cm 40 x 30) decorata da una semplice croce greca apicata, che conteneva 3 capselle, inserite una nell’altra. Due, prive di decorazione, sono in pietra, la terza, in argento, conteneva 3 laminette dello stesso materiale, frammenti di stoffa e un vasetto di vetro.
La capsella argentea, di forma parallelepipeda e lavorata a sbalzo, purtroppo gravemente danneggiata in occasione del ritrovamento, è decorata sui lati da scene bibliche interpretate simbolicamente da coppie di agnelli, tra le quali è chiaramente riconoscibile quella del miracolo mosaico della sorgente, ed è collocabile cronologicamente tra fine IV e prima metà del V secolo; nell’ambito del V secolo sono da ritenersi anche le laminette argentee, con identica raffigurazione di santo chierico impressa a matrice.

LA CAPSELLA ARGENTEA - SEC. IV-V (alt.6cm. lati 9 cm) - Esodo 17,1-6

Nella chiesa di S. Stefano si conservano anche tre colonnine marmoree con capitellini corinzi a foglie lisce pertinenti un altare a mensa che possono rientrare anch’esse in una cronologia di V-VI secolo, ma che nel ‘500 risultavano collocate nella vicina chiesa canonicale di S. Agnese.
Per quanto Ennodio ricordi con macabra retorica che dopo la battaglia di Verona il campo risplendeva delle ossa di nemici uccisi ed esprima poco pietosamente il desiderio che questo spettacolo non sparisca mai, la sepoltura dei caduti era pratica normalmente osservata dagli eserciti del tempo, cui ottemperavano, per quanto possibile, anche gli eserciti sconfitti o alla quale potevano provvedere anche privati cittadini; la documentazione offerta dalle fonti di IV-VI secolo mostra che ciò valeva innanzitutto per comandanti ed ufficiali; che, quando possibile, la tumulazione seguiva immediatamente il combattimento e in genere avveniva durante la tregua notturna; che si cercava di celebrare dignitosamente le esequie. Non mancano altri esempi in cui un defunto di qualche importanza viene sepolto provvisoriamente in attesa di una sistemazione migliore oppure viene trasportato a grande distanza dal luogo di morte per essere deposto in un sito particolarmente appropriato alla sua condizione.
Mi sembra che la sepoltura di Pierius nella chiesa di Garlate non trovi altra giustificazione se non quella che lo scontro con le forze di Teoderico e la morte del generale siano avvenute a non molta distanza. In effetti pare improbabile pensare che tra Pierius e questa località sull’Adda esistesse un rapporto particolare, per esempio l’esistenza di una tenuta del comes, che motivasse la traslazione dei resti del generale da un luogo lontano. Si tratterrebbe di una sepoltura di fortuna, curata da qualche notabile locale o dagli stessi compagni d’arme del generale attardatisi ad onorarne le esequie prima della ritirata. Se la semplicità dell’epitaffio e la grande imperizia del lapicida cui venne commissionato il perfezionamento dell’opera, non rendevano particolare onore alla condizione elevata che Pierius aveva rivestito in vita, ci si era perlomeno preoccupati di seppellire in un luogo sacro chi aveva avuto qualche parte nella traslazione delle reliquie di S. Severino dal Norico. Si scelse forse un loculo in prossimità dell’altare e delle sacre reliquie conservatevi al disotto; una posizione privilegiata e frequentemente eletta anche per membri del clero come quel sacerdote per il cui epitaffio fu riutilizzata la lastra del comes.


GARLATE E IL MONTE BARRO

L’ambito territoriale entro il quale sorge Garlate è fortemente caratterizzato da un lato dalla presenza dell’Adda che, uscito dal Lario e prima di assumere un corso regolare, si allarga a formare i due laghetti di Garlate e Olginate, dall’altro da una serie di rilievi paralleli al corso del fiume e relativamente elevati che costituiscono una propaggine montuosa rivolta verso la pianura, si tratta del Monte Barro, del Monte della Regina e più a Sud del Monte Croce e del S. Genesio.
In età tardoantica quest’area risulta interessata dal passaggio della strada che collegava Como a Bergamo e Brescia: di questa via raffigurata nella Tabula Peutingeriana e ricordata anche nell’Anonimo Ravennate e in Guidone è possibile localizzare con sicurezza il passaggio dell’Adda a Olginate sulla base dei resti di un ponte romano ancora oggi visibili nei periodi di magra del fiume. Da Bergamo, passando per Almenno e la Val S. Martino, la strada raggiungeva il ponte di Olginate, di qui passava per Garlate e Prapaido, superava il rilievo collinare attraverso la sella di Galbiate e lambiva le falde meridionali e occidentali del Monte Barro raggiungendo Sala al Barro; per questo tratto vengono citati tre toponimi attestati nella documentazione bassomedievale che si riferiscono al percorso stradale ad Carubium (da quadrivium), ora Caribbio; ad Carubiolum e ad Miliarium forse coincidente col prato Miè presso Migliorate; oltre Sala la via raggiungeva Civate e seguendo un tracciato pedemontano arrivava a Como.
Nell’area di Garlate dovevano convergere anche altre due strade: la prima ipotizzata dal Passerini costituisce il prolungamento della via Milano - Monza e raggiungeva il ponte di Olginate toccando Arcore, Bernate, Velate, forse Cernusco Lombardone, Olgiate e la costiera dell’Adda, l’altra, ricostruita da Mirabella Roberti, si staccava dalla Milano-Como all’altezza di Carate e, passando per Agliate, Renate, Cassago, Bulciago, Garbagnate Monastero, Molteno e Oggiono, si univa alla sella di Galbiate con la Bergamo-Como.
Oltre ai materiali provenienti dalla chiesa di S. Stefano, il territorio ha restituito altre testimonianze tardoantiche poco a nord di Garlate in località Figina, venne recuperata una necropoli di una decina di tombe con corredi inquadrabili nel IV-V secolo: tra i reperti si segnalano un piatto di produzione africana e un’anforetta di provenienza microasiatica piuttosto inconsueti nelle necropoli d’area comasca, la cui presenza viene messa in relazione con le vie di comunicazione che interessavano l’area.
Molto importanti per il nostro discorso sono soprattutto i ritrovamenti effettuati sul Monte Barro, località che è sempre stata oggetto di congetture più o meno favolose e che gli scavi archeologici iniziati nel 1986 ed ancora in corso hanno riconosciuto come sede di uno stanziamento di età gota.
Le indagini hanno individuato un sistema fortificato piuttosto articolato che abbraccia un’ampia area del rilievo: a mezza costa sul versante sud-orientale è stata indagata parte della cerchia muraria con torri quadre e, sul versante occidentale, ai Piani di Barra, è stato riconosciuto un edificio residenziale costituito da tre corpi di fabbrica su due piani edificati intorno ad un grande cortile centrale (26,5 x 31,6), che sembra riprendere in forma semplificata schemi planimetrici ben documentati nelle ville tardoantiche; le strutture sono realizzate utilizzando materiali di buona qualità estratti da una cava vicina. L’ala orientale, cui era probabilmente simile quella occidentale in gran parte perduta, era costituita da un unico grande ambiente (10,80 x 27,60) diviso in due navate da 7 pilastri; l’ala settentrionale comprende invece un ambiente rettangolare centrale, ed altri minori disposti simmetricamente ai lati. Frammenti di intonaco policromo e manufatti di particolare significato, tra i quali una corona pensile in bronzo, reperiti nei depositi di crollo del vano soprastante la sala centrale, suggeriscono per questo vano funzioni di rappresentanza.
L’impianto originario conosce una seconda fase che determina la modifica di alcuni ambienti e, nel grande ambiente dell’ala orientale, la creazione di pareti divisorie in materiale deperibile e di alcuni focolari. È stato notato dagli scopritori un certo scarto tecnologico tra le caratteristiche dell’edificio e le modalità di utilizzazione che rendono «plausibile una differenza di cultura materiale tra chi ha costruito l’edificio e chi l’ha utilizzato».
La cronologia dell’edificio e del suo utilizzo poggia sulla datazione dei materiali ceramici e sul ritrovamento di un discreto quantitativo di monete e viene posta tra il secondo quarto del V e la metà del VI secolo. Le attestazioni monetali paiono documentare una frequentazione del sito nei decenni centrali del V secolo (7 monete tra 410-423 e 457-461) e in tarda età gota (5 monete da Atalarico a Vitige: 526-540); constatando però che l’edificio non pare avere avuto una vita troppo lunga GianPiero Brogiolo tende a restringere la fase di costruzione e di utilizzo alla prima metà del VI secolo, giudicando come residuali le monete di metà V secolo o riferibili ad una fase di occupazione precedente di cui resta solo qualche esigua traccia.


LA BATTAGLIA DELL'ADDA

Le tre fonti che accennano alla battaglia dell’Adda sono piuttosto sommarie nella descrizione dell’avvenimento; sul fatto si sente in particolare la mancanza della testimonianza di Ennodio che, nonostante l’oscurità del linguaggio, fornisce comunque dettagli interessanti e talora originali su altri episodi della campagna.
L’Anonimo Valesiano, che usa l’espressione «ceciderunt populi ab utraque parte» utilizzata anche per le battaglie di Verona e della Pineta di Ravenna e l’Auctarium Hauniense con il suo riferimento alla res desperata impiegato anche per i fatti di Verona, concordano nel presentare la violenza dello scontro dell’Adda, che ha nella morte di Pierius il suo momento culminante e forse decisivo. La presenza dei Visigoti è testimoniata solo dall’Anonimo Valesiano, quella di Teoderico da Cassiodoro e dall’Auctarium Hauniense.
Gli scontri del 489/491 presentano comunque tratti comuni e non è quindi improbabile che dettagli tattici descritti per le battaglie dell’Isonzo, di Verona e della Pineta di Ravenna, illuminino anche le caratteristiche di quella dell’Adda. Sebbene risulti sempre perdente, è tuttavia Odoacre che ha l’opportunità di scegliere il luogo degli scontri e di preparare adeguatamente il terreno: si tratta sempre di un passaggio obbligato in rapporto con le principali vie di comunicazione e con l’ostacolo naturale rappresentato da un fiume, del quale si vuole impedire l’attraversamento. Il capo sciro schiera in genere le sue truppe su posizioni favorite dalla natura del terreno, aumentandone le capacità difensive con la costruzione di trinceramenti campali costituiti probabilmente da fossati, terrapieni e palizzate; in alcuni casi è evidente l’apporto logistico fornito da una città o da un centro fortificato vidcino.
Alla battaglia del Pons Sonti, localizzabile alla Mainizza sull’Isonzo, sulla strada che da Emona portava nelle Venetiae, le truppe di Odoacre utilizzano apprestamenti di sbarramento eretti all’uopo, ma probabilmente anche centri fortificati preesistenti. Nell’Auctarium Hauniense e nei Fasti Vindobonenses si parla di un fossatum contro il quale irrompono i Goti; Ennodio accenna a un vallum eretto dagli uomini di Odoaere e a «castra longo munita tempore». che non è improbabile risalissero al tardoimpero e appartenessero ai Claustra Alpium Iuliarum; agli accampamenti di Teoderico accennano invece Giordane e Paolo Diacono. In questo caso non c’è un accanito combattimento, ma lo scontro è risolto da un’abile manovra aggirante di Teoderico che guadando il fiume in un altro punto del suo corso, prende alle spalle l’avversario e lo costringe alla fuga.
Nel caso della battaglia combattuta in prossimità dell’Adige, Verona funge da base operativa dalla quale Odoacre esce per predisporre lo scontro in campo aperto, preferito all’assedio. Anche in questo caso il terreno è preparato allestendo fortificazioni di sbarramento cui accenna l’Anonimo Valesiano parlando di un fossatum. Lo scontro avvenne probabilmente presso S. Martino Buonalbergo, località a Km 8 dalla città che è posta sulla strada da Vicenza e in corrispondenza di una strettoia larga un chilometro c.a tra le ultime pendici delle colline sottostanti i Lessini e il corso dell’Adige, che in antico scorreva più a settentrione. I Goti dovettero sfondare lo schieramento avversario al centro e a Nord bloccarono ai nemici in ritirata la via per Verona costringendone molti a un disperato e disastroso attraversamento del fiume.
Anche gli avvenimenti del 490/491 alla Pineta di Ravenna presentano caratteristiche simili ai precedenti: Odoacre doveva aver allestito una posizione fortificata al pons Candidianus, che permetteva alla via Popilia di superare un corso d'acqua a c.a Km 4,5 a meridione della città; è a queste posizioni che Teodorico contrappone i suoi trinceramenti alla Pineta che bloccano i collegamenti con Cesena e Rimini rimaste fedeli al capo sciro. L'iniziativa affensiva questa volta è di Odoacre che nel luglio del 491 tenta di rompere l'assedio con una sortita che gli costa un'altra sconfitta e la morte del Magister Militium Levila, annegato nel Bidente durante la ritirata.
Come si è detto, Garlate è prossima al ponte di Olginate, uno dei pochi passaggi sull'Adda, sul suo territorio si univano la strada Como-Bergamo e quello da Milano e Monza, non lontano era il monte Barro con le sue difese che poteva offrire un'ottima base d'appoggio; a difesa del passaggio sull'Adda potevano essere allestiti trinceramenti fortificati poco a Sud del ponte, tra la costa del lago di Olginate e le pendici del monte Regina, una stretta di neanche un chilometro che avrebbe consentito di bloccare chi avanzasse risalendo la sponda del fiume; la strada da Milano e Monza poteva invece essere interrotta tra lago di Annone e Monte Regina o alla sella di Galbiate: è insomma un quadro nel quale la battaglia dell’Adda può trovare una buona collocazione e in effetti non mancano tradizioni leggendarie che ambientano eventi bellici alle pendici del Monte Barro, pur trasferendoli nell’età longobarda.
Restano comunque da chiarire i motivi che avrebbero spinto i due eserciti a fronteggiarsi sull’alto Adda e ogni tentativo in tal senso risulta assai difficile, anche perché i dati offerti dalle poche fonti sono piuttosto scarni e lasciano grandi incognite a chi tenti una ricomposizione di dettaglio; la nostra ricostruzione va quindi giudicata come del tutto ipotetica, anche se la riteniamo nel complesso ragionevole e plausibile.
Dopo la battaglia di Verona del 27 settembre 489 e il successivo tradimento del Magister Milituni Tufa che passa dalla parte dei Goti consegnando Milano, Teoderico è virtualmente padrone dell’Italia settentrionale. Il re goto dovette mantenere comunque un contingente consistente delle sue forze, forse addirittura maggioritario, nelle Venezie e soprattutto a Verona, centro che risultava fondamentale per il controllo della regione e che consentiva di sbarrare la vallata dell’Adige, pericolosamente esposta ad incursioni da parte di altre popolazioni germaniche.
La situazione tuttavia muta presto radicalmente: Tufa che era stato inviato contro Odoacre, a Faenza, con un nuovo voltafaccia, si riconcilia con il capo sciro; con l’anno nuovo, probabilmente in primavera, Odoacre, partendo da Cremona, sferra un’offensiva che punta alla riconquista di Milano. Teoderico, che non aveva mai esitato ad affrontare le forze di Odoacre, colto forse di sorpresa ed impossibilitato ad utilizzare tutto il suo esercito disperso tra Venezia e Liguria, è costretto ad abbandonare la metropoli ligure ed a rinchiudersi nella meglio difendibile civitacula di Pavia. Mentre Milano subisce un’occupazione particolarmente dura e Odoacre assedia Pavia, intervengono i Visigoti, prontamente chiamati in soccorso da Teoderico.
E' in questa situazione che matura la battaglia dell’Adda determinata dall’impossibilitaà per Odoacre di tenere Milano e dal tentativo di contrastare l’arrivo del contigente visigoto su posizioni più solide. Nell’interpretazione tradizionale Odoacre intende evitare di essere tagliato fuori dalle sue posizioni emiliane e si ritira verso Sud-Est, lungo la via Emilia, organizzando resistenza al ponte sull’Adda nei dintorni di Pizzighettone. Localizzando invece la battaglia nei dintorni di Garlate, a un centinaio di chilomesi b Pizzighettone, Odoacre si spingerebbe verso Nord-Est, allontanandosi quindi dalle sue basi emiliane e correndo il rischio di restare isolato.
E' un comportamento apparentemente ingiustificato; tuttavia bisogna ricordare che in tutto il corso della guerra, Odoacre, per quanto gli è possibile, cerca di non abbandonare definitivamente il Nord Italia a Teoderico. Se all'inizio del 490 si era lanciato da Cremona alla riconquista della Liguria, anche dopo la battaglia dell’Adda, pur rinchiuso in Ravenna, sembra agire continuamente per creare un secondo fronte nel Nord che possa alleggerire la pressione sulla città adriatica e indebolire alle spalle l’avversario che in effetti, nell’agosto del 491, deve rientrare in Pavia.
A questo fine Odoacre poteva contare sull’attività diretta di Tufa, rimasto nel Nord e attivo militarmente fino alla fine del 492 quando è ucciso tra Verona e Trento dai Rugi di Federico; sull’intervento di altre popolazioni
barbariche che la sua capace attività diplomatica sembra scatenare contro i Goti: i Burgundi che scendono in Italia probabilmente nel 491 saccheggiando soprattutto il Piemonte e forse nuovi contingenti eruli che scendono per la vallata dell’Adige nel 492/493; sulle defezioni all’interno dello stesso esercito di Teoderico, come avviene per i Rugi di Federico che si accordano con Tufa; in Liguria gli restava fedele anche parte del ceto dirigente romano, contro cui, dopo la definitiva vittoria, incomberà la punizione di Teoderico.
Non è quindi improbabile che nell’estate del 490 Odoacre non intendesse rinunciare subito al controllo della regione, preferendo arroccarsi su posizioni solide ed attendere lo sviluppo degli eventi; forse sottovalutava la forza del contigente visigoto o confidava che non si sarebbe trattenuto a lungo; forse le trattative già in corso con Gundobado gli facevano sperare in un pronto intervento burgundo.
Il tratto prealpino tra le città fortificate di Como e Bergamo, con i siti fortificati sulla strada pedemontana che collegava i due centri maggiori, poteva rappresentare una buona linea difensiva a Nord le vie del Lario la collegavano ai popoli germanici presso i quali era possibile trovare nuovi alleati, da Nord si controllava la pianura e Milano minacciando Teoderico ed impedendogli di muovere verso l’Emilia o di ricongiungersi con le sue truppe in Veneto.
L’importanza strategica delle fortezze prealpine che nell’età gota costituiranno una linea difensiva limitanea, sarà recepita come importante per il controllo della regione anche dal comandante bizantino Mundila che nel 539, pur disponendo di un numero assai limitato di soldati, preferì disperderli per occupare Novara, Como, Bergamo e le altre fortezze dell’area; ma il piano di Odoacre, nella nostra ricostruzione, sarebbe in sostanza molto simile a quello attuato 80 anni dopo dal Magister Militum bizantino Francione che nel 569, all’arrivo dei Longobardi, si ritirò nell’Isola Comacina, creando un’enclave bizantina che resistette fino al 588 e che doveva comprendere tutto il bacino del Lario ed essere protetta a Sud dalle fortezze site sulla pedemontana.


MARCO SANNAZARO